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Diritto di morire o diritto di vivere? L'eutanasia interpella la coscienza
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15 mag 2007

Diritto di morire o diritto di vivere? L'eutanasia interpella la coscienza ascolta audio

Luciano Eusebi

Il paziente può capire che è incurabile, ma non può accettare di essere abbandonato; ha il diritto di non soffrire e che si guardi con attenzione alla qualità della sua vita. Un intervento terapeutico sproporzionato, in cui a scarsi benefici si accompagnano eccessive menomazioni e sofferenze, non è dovuto. Ma come giudicare quando la terapia è sproporzionata? Posizioni culturali improntate al relativismo valoriale suggeriscono che il giudizio debba spettare al solo paziente, su basi puramente soggettive. Nella misura in cui però si accetta la possibilità di un confronto su cosa è bene e male per l'uomo, autenticamente fondato sull'esperienza e sulla realtà, la decisione sulla cura dei mali che affliggono l'uomo è affidata a una condivisione di criteri di fondo che la sottraggono all'arbitrio della volontà dei singoli. Occorre allora constatare che un'ampia letteratura mostra che il chiedere di morire è l'appello di aiuto lanciato da un paziente che rivendica il diritto di non soffrire e di essere considerato come interlocutore, e che l'attenzione al paziente nella sua dimensione umana e il ricorso a terapie palliative rappresentano una risposta adeguata a tale appello. Occorre inoltre valutare l'importanza cruciale, come punto di equilibrio di tutto il Diritto, dell'impossibilità di legittimare relazioni interpersonali giocate per la morte, al di fuori della legittima difesa e dell'uccisione del nemico in guerra (che ci auguriamo presto scompaia!). È questo un caposaldo su cui si fonda il convivere democratico, ispirato alla considerazione dell'intangibile dignità di ogni uomo, indipendentemente dalle capacità e qualità che ha o esprime. Se lo si negasse ne avrebbero discapito i soggetti più deboli e in difficoltà, che, in condizione di vita precaria, potrebbero sentirsi spinti dalla società, come dovere morale, a decidere nella solitudine della propria autodeterminazione, a fare un passo indietro, rinunciando a una vita vista come peso inutile, come gesto di "solidarietà all'incontrario". La relazione terapeutica scadrebbe a mero rapporto contrattualistico, in cui il medico si limita a prendere atto della volontà del paziente,  e privo del carattere di condivisione delle scelte che è il fondamento della dignità sia del medico che del paziente e della loro reciproca collaborazione.
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15 mag 2007

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Luciano Eusebi

Il paziente può capire che è incurabile, ma non può accettare di essere abbandonato; ha il diritto di non soffrire e che si guardi con attenzione alla qualità della sua vita. Un intervento terapeutico sproporzionato, in cui a scarsi benefici si accompagnano eccessive menomazioni e sofferenze, non è dovuto. Ma come giudicare quando la terapia è sproporzionata? Posizioni culturali improntate al relativismo valoriale suggeriscono che il giudizio debba spettare al solo paziente, su basi puramente soggettive. Nella misura in cui però si accetta la possibilità di un confronto su cosa è bene e male per l'uomo, autenticamente fondato sull'esperienza e sulla realtà, la decisione sulla cura dei mali che affliggono l'uomo è affidata a una condivisione di criteri di fondo che la sottraggono all'arbitrio della volontà dei singoli. Occorre allora constatare che un'ampia letteratura mostra che il chiedere di morire è l'appello di aiuto lanciato da un paziente che rivendica il diritto di non soffrire e di essere considerato come interlocutore, e che l'attenzione al paziente nella sua dimensione umana e il ricorso a terapie palliative rappresentano una risposta adeguata a tale appello. Occorre inoltre valutare l'importanza cruciale, come punto di equilibrio di tutto il Diritto, dell'impossibilità di legittimare relazioni interpersonali giocate per la morte, al di fuori della legittima difesa e dell'uccisione del nemico in guerra (che ci auguriamo presto scompaia!). È questo un caposaldo su cui si fonda il convivere democratico, ispirato alla considerazione dell'intangibile dignità di ogni uomo, indipendentemente dalle capacità e qualità che ha o esprime. Se lo si negasse ne avrebbero discapito i soggetti più deboli e in difficoltà, che, in condizione di vita precaria, potrebbero sentirsi spinti dalla società, come dovere morale, a decidere nella solitudine della propria autodeterminazione, a fare un passo indietro, rinunciando a una vita vista come peso inutile, come gesto di "solidarietà all'incontrario". La relazione terapeutica scadrebbe a mero rapporto contrattualistico, in cui il medico si limita a prendere atto della volontà del paziente,  e privo del carattere di condivisione delle scelte che è il fondamento della dignità sia del medico che del paziente e della loro reciproca collaborazione.

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