NOVARA

Parla l'attore Carlo Rivolta,che ha messo in scena il Libro biblico sul dolore innocente

Giobbe o Prometeo?

«È un personaggio che può essere accostato alle grandi figure della tragedia classica, come Filottete o Re Lear. L’emblema del giusto sofferente che sfida Dio ma non perde la fede»

Da Novara Andrea Gilardoni

Il buio arriva all'improvviso clamore disordinato di tuoni e lampi che confondono lo spettatore, e l'uomo, privato delle sue vesti, resta solo sul palco a gridare, discutere e lottare con un Dio che gli ha tolto tutto e che solo alla fine si mostrerà.
E' l'inizio del «Giobbe» di Carlo Rivolta, trasposizione scenica di una delle più belle ed intense opere della corrente sapienziale della Bibbia, portato in scena in questi giorni a Novara nel quadro del progetto «Passio 2006» - tappa di avvicinamento al Convegno ecclesiale di Verona del prossimo ottobre - centrato sulla riflessione attorno al tema della fragilità umana.
«Giobbe, il giusto colpito dalla sventura e dalla sofferenza, è proprio l'emblema di questa fragilità - spiega Rivolta -. La sua vicenda è la metafora del dolore innocente, del bimbo che soffre, dell'anziano che si ammala. E' la storia di un uomo che si trova a vivere mille fragilità, la malattia, la povertà, la perdita dei figli, e non riesce a comprenderne il motivo. Ma mai nemmeno, una volta, arriva a pensare che non ci sia un senso. Che non ci sia un Dio».
Un libro da tenere vicino nei momenti difficili...
«Credo che sia un'opera che può essere un buon compagno di strada. Durante gli anni degli studi per me la Bibbia era un oggetto misterioso. Ho incontrato Giobbe - e altri libri meravigliosi come quello dei Salmi o il Qoelet - solo da adulto. E ne sono rimasto sconvolto. Non c'è solo la figura di un uomo che, nelle avversità, non perde la fede, ma anche quella di una persona che non smette mai di cercare, che non si rassegna al silenzio e che continua a parlare con Dio. Che continua a pregare».
Una preghiera originale, però. Nello spettacolo Giobbe grida, mostra i pugni, arriva a dire al Signore "coraggio, fatti avanti".
«E' una preghiera sincera, fondata su sentimenti reali, nella quale porta tutto il suo sconforto e la sua indignazione per quello che ha subito. Lo spettacolo, poi, sfata quello che è un luogo comune: la pazienza di Giobbe. Giobbe non è un paziente, è un inquieto, un angosciato. Nella traduzione e nell'esegesi del testo mi ha aiutato Roberto Vignolo, docente di Sacra Scrittura alla Facoltà teologica Italia settentrionale. Non conosco la lingua originale, ma credo che l'etimologia stessa del suo nome significhi "ribelle". La sua preghiera ha il fascino del tormento che assale l'uomo retto quando si domanda "perché?". Il perché del dolore, il perché della sofferenza. Un modo di pregare lontanissimo da quello piccolo borghese, che ha la forza di una rabbia profonda, ma anche la bellezza dell'autenticità».
«Giobbe non è l'uomo, è l'umanità. Una razza che può sentire, pensare, esprimersi con questo accento è veramente degna di scambiare la sua parola con la parola soprannaturale e di conversare col suo Creatore», scriveva Lamartine. E' proprio questo rapporto, dunque, il fulcro attorno al quale ruota l'opera?
«E' l'aspetto che mi ha interessato di più. Per valorizzarlo ho ridotto al minimo gli interventi degli amici di Giobbe ed ho spostato alla fine il capitolo 28, l'inno sapienziale, che avrebbe rotto il ritmo drammatico. E proprio per tenere al centro questo dialogo ho deciso di essere solo sul palco ad interpretare tutti i personaggi. Ho voluto un'opera che, salvo il prologo, fosse scandita integralmente dalle parole di Giobbe e dalla risposta che arriva dal Signore».
Una risposta nella quale, durante lo spettacolo, Dio lo chiama "amico".
«Certo, tratta ancora della risposta di un Dio veterotestamentario, che ribadisce la sua potenza. Ma che è una grandissima vittoria per Giobbe e per l'umanità tutta. Perché dice di un Dio che si china sull'uomo. Sono poi parole che rimandano a quella che sarà la vera risposta di Dio sulla fragilità: Cristo».
Nel suo repertorio lei ha molti testi del mondo classico, dall'«Apologia di Socrate» al «Simposio» ad altri dialoghi platonici. Che assonanze ci sono tra queste opere ed il libro di Giobbe?
«Beh, per prima cosa tutte si prestano alla trasposizione scenica. Ma non c'è solo questo. Sono opere che trattano i temi fondamentali per la vita dell'uomo, che tentano di dare risposte a domande che da sempre l'umanità si pone e che si ritrovano in filigrana in tante figure dell'arte e della cultura, non solo classiche. Giobbe è un personaggio che potrebbe essere accostato a Filottete, o a Prometeo, ma anche a Re Lear di Shakespeare. La forza della sua ribellione, poi, mi ricorda il non finito dei Prigioni di Michelangelo, lo sprigionarsi muscolare delle sue sculture dal marmo grezzo».