LE STORIE
Incontro con Enrique Irazoqui,il protagonista del film del poeta regista: «Non sono mai stato un attore. Conobbi Pier Paolo per caso, quando ero uno studente impegnato nella lotta contro Franco. Non volevo, mi convinse la sua idea gramsciana di narrazione "nazional-popolare"»

Io, Gesù nel film di Pasolini

Il Vangelo secondo Matteo 40 anni dopo «Per entrare nel ruolo identificai i farisei con la borghesia del mio Paese, base della dittatura. Ero e resto agnostico,eppure con il Discorso della Montagna ho imparato che può esistere una bellezza assoluta, senza bisogno di aggettivi»

Di Lorenzo Rosoli

Si dice «agnostico». Ma quando si rivede sullo schermo «ogni volta è uno choc. Per Pasolini il Vangelo era la bellezza assoluta. E il solo pensiero di aver dato il mio volto a quella bellezza senza aggettivi mi riempie di stupore». Enrique Irazoqui aveva 19 anni e non aveva mai recitato in vita sua quando nel 1964 interpretò Gesù nel Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. Sono passati 42 anni ma quel sentimento è ancora vivo e bruciante. «Non rivedo il film da molti anni. E ancora mi dico: ma quello, non sono io», confessa.
Uno stupore che Enrique avrebbe voluto narrare venerdì a Novara, dov’era atteso come ospite di Passio, l’itinerario di «cultura e arte attorno al mistero pasquale» in corso nella diocesi piemontese. Un problema di salute gli ha impedito di lasciare la Spagna – spera di poter venire per la chiusura della manifestazione, il 3 maggio. Ma dalla sua abitazione di Cadaques – il borgo di pescatori, in Catalogna, dove anche Salvador Dalí ebbe casa – non si è sottratto alla richiesta di Avvenire di tornare con la memoria agli anni dell’incontro con Pasolini.
Un incontro che ha inserito il volto di Enrique nella millenaria galleria dei volti del Cristo. Una storia da raccontare dal principio. «Nel febbraio del 1964 ero a Firenze e a Roma come rappresentante del sindacato universitario clandestino antifranchista di Barcellona per chiedere a importanti personalità italiane di venire in Spagna a parlare in pubblico per sostenere la nostra lotta contro la dittatura – racconta Enrique –. Incontrai La Pira, Nenni, Pratolini... L’ultimo giorno, avevamo poche ore libere, decidemmo di andare da Pier Paolo – Enrique lo chiama quasi sempre col nome di battesimo –. Lo conoscevo come poeta, non sapevo nulla della sua attività cinematografica». Che era iniziata solo tre anni prima, nel 1961, con il parto tormentato e contestato di Accattone.
«Arrivammo alla sua casa all’Eur, dove viveva con la madre. Gli spiegai i motivi della visita, mentre lui stava in pie di, mi girava intorno, come immerso in altri pensieri. Alla fine disse che ci avrebbe aiutati, ma soprattutto mi chiese un favore: fare la parte di Gesù in un film sul Vangelo che stava preparando da due anni, ma non aveva ancora trovato una persona adatta a quel ruolo».
Pasolini aveva coltivato alcune ipotesi: il poeta sovietico Evtusenko, i simboli della beat generation Kerouac e Ginsberg, «anche lo scrittore spagnolo Goytisolo – continua Enrique –. Ma nessuno gli andava bene. Ora voleva me. Gli dissi subito di no, che non mi interessava affatto, che avevo cose più serie da fare, la mia lotta per la fraternità universale, altro che film come a Hollywood con i suoi Cristi depilati e romantici. E poi venivo dalla Spagna franchista, dove la Chiesa cattolica era parte del sistema di potere. A Pier Paolo la mia risposta piacque moltissimo e per farmi cambiare idea mobilitò tutte le sue conoscenze: Elsa Morante, che diverrà mia grande amica, il produttore Manolo Bolognini e il giovane che mi aveva accompagnato tra Firenze e Roma, il figlio dello storico Manacorda. Fu questi a convincermi, assicurandomi che sarebbe stato un Gesù diverso, un film in chiave epico-lirica e nazional-popolare nel senso gramsciano del termine. A Gramsci dissi di sì».
Pasolini aveva già dimostrato di preferire attori non professionisti. Così fu anche nel Vangelo con i ruoli affidati agli amici – da Enzo Siciliano ad Alfonso Gatto – e alla madre Susanna, che fu Maria anziana. Perché volle proprio Enrique Irazoqui per il suo Cristo? «In me vedeva il Cristo degli artisti che amava – Giotto, Piero della Francesca, El Greco – e insieme il simbolo della resistenza antifascista; quella di Spagna, ma anche quella della Seconda guerra mondiale, che gli aveva portato via il fratello. Proprio a me dedicò Vittoria, l’ultima lirica del libro Poesia in forma di rosa, anche se non mi chiamò per nome, per non inguaiarmi con la polizia politica».
Come si lavorava sul set? «Non ero un professionista, avevo s olo 19 anni. Così tutto si faceva in un rapporto di grande amicizia, discutendo fino a notte fonda con Elsa Morante, Laura Betti, Moravia... Pier Paolo aveva questa tecnica: portarci a elaborare un rapporto personale fra la nostra vita e la narrazione evangelica. Così per me i farisei erano la borghesia spagnola complice del franchismo, i soldati che arrestano Gesù la polizia politica. E io ci mettevo tutta la mia rabbia politica e umana...».
Un militante marxista turgido di ribellione chiamato a impersonare il Gesù che comanda di amare i nemici, o che si ritira nel deserto a pregare... Chi era – chi è – Gesù per Enrique Irazoqui? «Da agnostico, faccio mie le parole di Pier Paolo in una lettera al produttore Alfredo Bini: per me finora la bellezza è sempre stata "aggettivata", una bellezza morale, o politica. Solo leggendo il Vangelo per la prima volta ho incontrato la bellezza assoluta».
Lei è diventato il volto di quella bellezza... «E questo mi riempie sempre di stupore, fin dalla prima volta. Ogni volta è uno choc». Terminato il film, Enrique – che per parte di madre ha radici in Italia, a Salò e Padova – torna in Spagna, si sposa, si laurea in economia. «Da bravo marxista credevo che l’economia fosse il cuore della storia. Appena cinque mesi dopo la laurea mi ero già ricreduto. E mi diedi alla letteratura spagnola, che per anni insegnai anche nelle università degli Stati Uniti». Oggi Enrique è padre di due figli, ha un nipote e altri due in arrivo entro fine anno. Non sopporta il Cristo di Mel Gibson («un film sadico»), non disdegna quello di Zeffirelli («ma è un po’ dolce, hollywoodiano»). E nel cuore un ricordo: «Il discorso della Montagna. È la parte del film di Pier Paolo che amo di più».