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Ero in carcere e siete venuti a trovarmi . Le nuove prigioni della psiche
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LE “NOSTRE” PRIGIONI
Alla ricerca del dialogo tra il “dentro” e il “fuori”. Al progetto Passio il talk show dedicato al “visitare i carcerati” con Luigi Pagano, Alessandro Meluzzi e don Silvio Barbaglia.

I numeri sono impietosi: 67 mila detenuti nelle carceri italiane, 23 mila in più della capienza massima. E il 60 per cento sono stranieri che portano con sè – a volte – il paradosso di dover stare “dentro” non perchè abbiano compiuto reati gravi, ma perchè “fuori” non hanno altri riferimenti o strutture alternative. Il “dentro” e il “fuori”, due mondi che difficilmente si incontrano. “Come se a forza di chiedere carceri ‘trasparenti’ avessimo ottenuto in realtà un carcere invisibile” – dice Luigi Pagano, provveditore alle carceri lombarde, per quasi vent’anni direttore a San Vittore. Pagano parla a Novara nella serata che il progetto Passio dedica alla prigioni del corpo e della mente, riflettendo – all’Auditorium Del Monte del Seminario di Novara - sul senso dell’evangelico “visitare i carcerati”. Con Pagano, anche lo psichiatra Alessandro Meluzzi - fondatore di alcune comunità terapeutiche contro il disagio psichico - e il biblista don Silvio Barbaglia, intervistati da Suor Alfonsina Zanatta. Un confronto difficile, oltre i luoghi comuni, con la realtà del carcere e con quella del disagio psichico accomunati, per Meluzzi, dal tentativo di “nascondere” più che di riabilitare e mettere di nuovo in contatto con la società. “Il risultato – dice – è che il carcere oggi è quello che in passato era il manicomio: un contenitore indifferenziato, dove finiscono situazioni tra loro diversissime. E così – spesso –lo stesso carcere diventa manicomi: il luogo migliore per ‘rinchiudere’ anche il disagio psichico”. Lo ammette anche Luigi Pagano, che continua a battersi perchè il “dentro” e il “fuori” abbiano almeno il coraggio di guardarsi in faccia: “Non si riesce più a capire – ammette – che cosa sia e a che cosa serva il carcere. Perchè il rischio è quello di puntare ad una struttura efficiente, ma non efficace”. Un carcere, cioè, perfetto per rinchiudere, ma incapace di indicare percorsi alternativi. E i percorsi alternativi servono, concordano Pagano e Meluzzi. Anzi, sono “convenienti” perchè permettono di dare un futuro a chi è recluso, una sorta di “assicurazione” per la società stessa in cui il detenuto tornerà, una volta scontata la pena.
Eppure, nonostante la Costituzione stessa punti sul valore riabilitativo del carcere, tutto sembra demandato solo al volontariato. Un volontariato difficile, come è difficile – e lo vedi, a tratti, negli umori e negli sguardi della platea – provare a percepire il detenuto come un uomo, sopratutto davanti ad alcuni delitti; cercare di capire, coniugare giustizia e umanità. “Ma io – dice Pagano – continuo a credere nell’importanza del rapporto con il mondo esterno e di chi ha voglia di impegnarsi in un percorso si accompagnamento dei detenuti, prima fuori dalla prigione della mente, poi da quella fisica”. “Attenzione però – avverte Meluzzi,– al volontariato ‘sentimentale’, quello che si standardizza, felice di se stesso e un po’ autoreferenziale”. C’è bisogno – aggiunge – di carità vera, di tenere alta quella che chiama la “temperatura del cuore” nei confronti degli altri.
Temperatura del cuore, voglia di sporcarsi le mani da “fuori” a “dentro”. Per i cristiani una sfida che don Silvio Barbaglia – al di là delle spiegazioni esegetiche sul senso evangelico dell’essere in carcere – riassume così: “Avere la percezione dell’essere fratelli”. Percezione. E coraggio.
 


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